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Opposizione per impossibilità materiale di pagare i tributi stante l’indeducibilità dei costi ineludibili.

 

L’indetraibilità delle spese inevitabili determina logicamente l’impossibilità materiale di pagare i tributi.

 

 

Ciò per i lavoratori sia subordinati che autonomi, che per le società.

 

 

Impossibilità perché, non essendo deducibili le spese inevitabili, quali il cibo, l’abbigliamento, i trasporti, la casa, le aliquote (a loro volta assurde) si abbattono su un reddito che non esiste.

 

 

Facciamo per primo l’esempio di un lavoratore autonomo.

 

 

Consideriamo un professionista con famiglia e un reddito ‘netto’ (ma solo delle spese che gli è consentito detrarre) di 40.000 euro annuali.

 

 

Un ‘netto’ che non è netto affatto perché, oltre ai costi che si considerano deducibili, dovrà sostenere le spese non deducibili ma inevitabili sopra accennate, sicché gli rimarranno alla fine diciamo 10.000 euro.

 

 

Ne deriva che, sul falso netto di 40.000 euro, con un’aliquota complessiva effettiva diciamo del 50%, gli si chiedono 20.000 euro, che equivale a dire 10.000 euro in più di quello che gli è rimasto, nonché un’aliquota del 200%.

 

 

È chiaro invece che gli si dovrebbero chiedere le tasse solo sul vero netto (10.000 euro), quindi 5.000 euro.

 

 

Riconoscimento dell’impossibilità di pagare che va esteso anche all’IVA e alla ritenuta d’acconto perché, quale che sia il dovere da compiere, e dunque anche se si tratti del dovere di versare ciò che si è riscosso appunto solo per versarlo (come l’IVA e la RA), non si può sanzionare l’inadempimento quando si sia resa globalmente problematica la condizione economica, e a quel punto anche esistenziale, del contribuente, perché ciò configurerebbe l’obbligo giuridico di avere una capacità sopra la media di trovare soluzioni.

 

 

(IVA che andrebbe poi ricalcolata detraendo anche quella sui costi inevitabili e indetraibili).

 

 

Occorrerebbe in definitiva forfettizzare le spese inevitabili, consentirne la detrazione dal reddito lordo, e solo sul residuo sarebbe logico chiedere i tributi.

 

 

Né cambia nulla il fatto che, per il lavoro subordinato, la tassazione è alla fonte (ma la ritenuta d’acconto è prevista anche per i lavoratori autonomi).

 

 

Consideriamo ad esempio la busta paga di gennaio 2013 del sig. MD (un caso reale).

 

 

Ebbene, MD, a gennaio 2013, ha riscosso 1.852 euro rispetto a un lordo di 3.883 sborsati dal datore di lavoro, il 52,30% dei quali, ovvero 2.031 euro, sono stati assorbiti dai tributi.

 

 

Con il risultato che, poiché ad MD, pagate le spese inevitabili, rimangono al massimo (se sa fare i miracoli), diciamo 200 euro, avrà pagato tributi per oltre dieci volte il suo vero reddito.

 

 

Un’impossibilità di pagare che per i lavoratori subordinati ha connotazioni diverse, ma sussiste lo stesso, perché deve essere rapportata a questo stadio della civiltà e dell’economia, per cui bisogna partire dal presupposto che, ad esempio, cento anni fa, la ricchezza consisteva nell’avere da mangiare, mentre oggi è la povertà a consistere nell’avere solo da mangiare l’essenziale.

 

 

Ne deriva che, mentre per i lavoratori autonomi l’impossibilità è constatabile materialmente, perché si configura come un non avere più il denaro sul quale il fisco vuole i tributi, per i lavoratori subordinati l’impossibilità è giuridica, perché le detrazioni li spingono a livelli tali che essi, escogitando in qualunque modo delle soluzioni, riescono a realizzare delle forme di sopravvivenza che in realtà sono possibili anche con 100 euro al mese, o con nulla (fruendo della pietà pubblica o privata), ma non sono inquadrabili nello Stato di diritto.

 

 

Non molto diverso è il problema per le società, che non hanno spese ‘personali’, ma anche per le quali sussistono non modesti costi ineludibili e indetraibili, per cui, anche per esse, le aliquote vengono applicati su redditi che, detratte le spese ineludibili, non esistono materialmente più.

 

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